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Grandi strutture di vendita di prodotti alimentari: necessaria l’autorizzazione per commercializzare anche prodotti per la pulizia

Il C.G.A., confermando una sentenza del TAR di Catania, ha rilevato che l’apertura o l’ampliamento di una grande struttura di vendita sono tuttora subordinati a valutazioni dell’amministrazione comunale circa l’impatto urbanistico e ambientale da essi derivante, con conseguente necessità di un’autorizzazione espressa e non è sufficiente la Scia. Gli stessi giudici amministrativi hanno sancito la permanenza della distinzione tra il settore merceologico dei prodotti alimentari e quello dei prodotti non alimentari. La normativa regionale che ricomprendeva nel settore alimentare anche gli articoli per la pulizia della persona e della casa è decaduta > vai alla sentenza.

Una società aveva ottenuto, a metà 2012, l’autorizzazione comunale per l’apertura di una grande struttura di vendita (supermercato) per il settore alimentare.
A seguito di esposti presentati da una concorrente, il Comune accertava che nel supermercato venivano venduti anche prodotti per igiene e pulizia della casa e della persona.
In effetti, la società aveva comunicato l’ampliamento della superfice di vendita, dedicata proprio a questi prodotti.
In seguito alla verifica effettuata, il Comune ha intimato di rimuovere tali articoli dagli scaffali e di cessarne la vendita.
Da ultimo, dopo l’entrata in vigore del D.L. 201 del 2011, la società ha presentato al comune una D.I.A. significando l’intenzione di procedere alla vendita dei prodotti non alimentari sopra menzionati.
Il Comune ha ritenuto inammissibile tale dichiarazione.
La società ha, quindi, impugnato le due diffide ed il provvedimento comunale d’inammissibilità della dichiarazione.
Il Tar di Catania aveva respinto il ricorso rilevando che l’apertura o l’ampliamento di una grande struttura di vendita sono tuttora subordinati a valutazioni dell’Amministrazione Comunale circa l’impatto urbanistico e ambientale da essi derivante, con conseguente necessità di un’autorizzazione espressa.
Inoltre, gli stessi giudici amministrativi evidenziavano la permanenza della distinzione tra il settore merceologico dei prodotti alimentari e quello dei prodotti non alimentari.
La sentenza è stata impugnata di fronte al Consiglio di Giustizia Amministrativa che ha confermato il giudizio di prima istanza.
L’appellante ha sostenuto che la normativa interna di liberalizzazione dell’attività commerciale conseguente alla direttiva comunitaria 2006/123/CE (c.d. Bolkestein) ha eliminato in radice ogni distinzione tra i due settori merceologici (tranne ovviamente per quanto concerne i requisiti professionali e idoneativi degli operatori addetti).
Il C.G.A. ha richiamato il D.L. n. 223 del 2006, convertito dalla L. n. 248 del 2006, all’art. 3 comma 1 così disponeva per quanto qui interessa:
“1. Ai sensi delle disposizioni dell’ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci e dei servizi ed al fine di garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilità all’acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell’articolo 117, comma secondo, lettere e) ed m), della Costituzione, le attività commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di alimenti e bevande, sono svolte senza i seguenti limiti e prescrizioni:
a) l’iscrizione a registri abilitanti ovvero possesso di requisiti professionali soggettivi per l’esercizio di attività commerciali, fatti salvi quelli riguardanti il settore alimentare e della somministrazione degli alimenti e delle bevande;
b) il rispetto di distanze minime obbligatorie tra attività commerciali appartenenti alla medesima tipologia di esercizio;
c) le limitazioni quantitative all’assortimento merceologico offerto negli esercizi commerciali, fatta salva la distinzione tra settore alimentare e non alimentare ;
d) il rispetto di limiti riferiti a quote di mercato predefinite o calcolate sul volume delle vendite a livello territoriale sub regionale;
(omissis)…………………….”.
L’art. 31 comma 1 del D.L. n. 201 del 2011, convertito dalla L. n. 214 del 2011, pur nel contesto di un decisivo impulso alla liberalizzazione delle attività commerciali, si è limitato ad aggiungere al trascritto comma 1 la seguente lettera:
“d-bis) il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l’obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale dell’esercizio”.
Pertanto, le norme sulla liberalizzazione non hanno inciso sulla distinzione fondamentale – fissata dall’art. 5 del D. Lgs. n. 114 del 1998 e appunto richiamata dalla lettera c) del ridetto art. 31 – tra il settore merceologico alimentare e quello non alimentare ma soltanto sulle preesistenti sottocategorie interne ai due ambiti, che restano, quindi, tra loro distinti.
Anche in ambito nazionale il soggetto autorizzato per un settore non può vendere prodotti appartenenti all’altro settore.
Nella Regione Sicilia, la quale come è noto ha competenza legislativa esclusiva in materia di commercio, l’art. 3 della l.r. n. 28/1999 prevedeva, sperimentalmente, un raggruppamento di prodotti, per la durata di trenta mesi, che ricomprendeva nel settore alimentare “Tutti i prodotti alimentari nonché articoli per la pulizia della persona e della casa ed articoli in carta per la casa.”, come del resto confermato nel D.P.R.S. n. 165 del 2000.
Tuttavia decorso il termine decadenziale originariamente previsto (trenta mesi più ulteriori sei per approvare la nuova normativa) dall’entrata in vigore della legge 28/1999 senza che fosse stato approvata la legge di riordino dei settori merceologici e dunque in pratica dal dicembre del 2002 la previsione ampliativa ha perso vigore, cedendo nuovamente il passo alla distinzione di base tra i due settori che tuttora permane.
In sostanza in Sicilia non risulta oggi possibile ricomprendere in via interpretativa (come invece avviene per gli alimenti per animali) i prodotti per l’igiene della casa e della persona nel novero dei prodotti alimentari.
Con il secondo motivo l’appellante ha sostenuto che, in ogni caso, il problema era stato risolto con la nuova dichiarazione d’inizio attività (oggi S.C.I.A.) senza che fosse necessaria una preventiva autorizzazione espressa.
Tesi non condivisa dal T.A.R. prima, e dal C.G.A., poi.
La citata legge reg. n. 28 del 1999 all’art. 9, infatti, prevede che l’apertura e l’ampliamento di una grande superficie di vendita sono soggetti ad autorizzazione rilasciata dal Comune competente per territorio nel rispetto della programmazione urbanistico-commerciale di cui all’articolo 5 ed in conformità alle determinazioni adottate dalla conferenza di servizi di cui al comma 3.
A sua volta l’art. 5 della legge prevede la fissazione con decreto assessoriale di limiti al rilascio delle suddette autorizzazioni, tra i quali quello inerente l’eventuale avvenuta saturazione rispetto alla superficie complessiva assegnata (e cioè in pratica al contingente) per il bacino geografico di riferimento.
In effetti, la stessa Regione, sulla scia della sentenza del TAR Palermo n. 991 del 2012 nonché del TAR Catania n. 1286 del 2012, ha riconosciuto come confliggente con i principi pro-concorrenziali stabiliti dalla normativa di recepimento dei principi comunitari, il precedente limite inderogabile all’apertura di grandi strutture di vendita, che derivava appunto dall’art. 5 della legge reg. n. 28 del 1999 (c.d saturazione del bacino).
Questo, però, non fa venire meno l’esigenza dell’autorizzazione espressa per l’apertura di una grande struttura e non rende sufficiente la S.C.I.A., come sostanzialmente oggi avviene per i piccoli esercizi commerciali di vicinato.
Al riguardo, dalla normativa statale di recepimento, risulta evidente che il libero dispiegarsi dell’iniziativa commerciale incontra tuttora limiti ove vengano in rilievo vincoli “ connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali”.
In Sicilia, pertanto, perdura il rimando ad una Conferenza di servizi per la valutazione dell’impatto che l’apertura di una grande struttura di vendita ha oggettivamente sul territorio con particolare riguardo a fattori quali la mobilità, il traffico e l’inquinamento nonché il rispetto dei vincoli relativi alla tutela del patrimonio artistico ed ambientale.
D’altra parte, lo stesso art. 19 della legge n. 241 del 1990 e s.m.i. consente l’utilizzo della S.C.I.A. solo ove l’autorizzazione all’esercizio di un’attività sia atto vincolato (dipendente cioè esclusivamente dalla verifica dei presupposti legali) e quindi esclude la praticabilità di tale strumento di semplificazione allorché il rilascio del titolo è subordinato alla previa valutazione dell’impatto che da tale attività può derivare sul tessuto urbanistico, ambientale etc..
Non può, poi, essere l’esercente a stabilire autonomamente se l’aggiunta di prodotti per igiene e pulizia al catalogo dei prodotti alimentari già in vendita nella struttura possa ragionevolmente provocare incidenza sull’ambiente o sul traffico.


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