Corte di Cassazione, sez. penale 13 novembre, n. 43452 – Furto in un esercizio commerciale

Chi sottrae merce dai centri commerciali risponde di furto aggravato in quanto si tratta di edifici che, anche se diversi dall’abitazione, sono equiparabili alla “privata dimora”. L’ha stabilito la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 43452 del 13 novembre scorso che annulla una sentenza della Corte di Appello di Roma che aveva condannato per furto due persone che avevano rubato alcuni oggetti in un centro commerciale.
In primo grado gli imputati, che si erano impossessati di alcuni oggetti (due magliette, un pantalone, due felpe), prelevandoli all’interno di un esercizio commerciale, dopo aver asportato i dispositivi antitaccheggio, erano stati condannati dal Tribunale di Civitavecchia per il reato previsto e punito dall’art.624 bis del codice penale, introdotto dalla Legge n.128 del 2001, che, sotto la rubrica “Furto in abitazione o con strappo” punisce chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, mediante introduzione in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora. Contro la condanna gli imputati erano ricorsi in appello e la Corte di Appello di Roma, in secondo grado, aveva ricondotto il fatto nell’ambito del furto semplice, ritenendo che la nuova norma non potesse essere applicata poiché riguardante “soltanto i furti commessi in abitazione e quelli con strappo, non quelli in locali diversi dall’abitazione”.
Contro la sentenza di appello il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma aveva proposto ricorso in Cassazione, ritenendo invece, come correttamente stabilito dai giudici di primo grado, che dovesse “ritenersi luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora qualsiasi luogo nel quale le persone si trattengono per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della loro vita privata, come studi professionali, stabilimenti industriali ed esercizio commerciali”.
La Suprema Corte, accogliendo il ricorso, annullando la sentenza della Corte di Appello di Roma e rinviando nuovamente la questione davanti alla Corte di Appello per un nuovo esame, ha affermato che, prima dell’introduzione della nuova figura di reato, l’art. 625 del codice penale, comma 1, n. 1, (nella sua lettura antecedente alla novella di cui alla L. 26 marzo 2001, n. 128, art. 2), in tema di aggravanti del reato di furto, faceva riferimento alla introduzione o trattenimento “in un edificio o in un altro luogo destinato ad abitazione”; con l’introduzione dell’art. 624 bis da parte della Legge n.128 del 2001, sono ora previste autonome figure di reato con riferimento al furto commesso “mediante introduzione in un edificio o in un altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa”: appare, perciò, evidente l’ampliamento della portata della previsione, facendosi ora riferimento alla “privata dimora” piuttosto che all’ “abitazione”.
La Cassazione ha ribadito un principio già espresso in precedenti pronunce, secondo il quale “la nozione di “privata dimora” è sicuramente più ampia di quello di “abitazione” e comprende qualsiasi luogo destinato permanentemente o transitoriamente all’esplicazione della vita privata o delle attività lavorative, culturali, professionali”: in tale novero rientrano, dunque, anche gli esercizi commerciali.

Corte di Cassazione sez. Penale 13 novembre, n. 43452 – Furto in un esercizio commerciale

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