Spesa bloccata per i fondi europei 2021-27: a fine aprile solo lo 0,9% su 74 miliardi

di GIUSEPPE CHIELLINO (dal Sole 24 Ore)

Il Sole 24 Ore
5 Luglio 2024
Modifica zoom
100%

di GIUSEPPE CHIELLINO (dal Sole 24 Ore)
Calma piatta. Che la spesa dei fondi strutturali europei da parte delle Regioni e dei Ministeri procedesse con difficoltà è un dato storico. Ma nella programmazione 2021-2027 sta assumendo dimensioni molto preoccupanti. A fine aprile, su 74 miliardi di euro la spesa effettiva era ferma a 621 milioni, lo 0,9% del totale. Questo si ricava dall’ultima trasmissione trimestrale a Bruxelles dei dati delle autorità di gestione dei programmi. Nessun segnale di accelerazione rispetto a quanto indicato a fine dicembre nella nota di aggiornamento al Def, quando la spesa era pari a 535 milioni (0,7%). Senza una svolta davvero radicale, sarà dunque impossibile utilizzare tutte queste risorse, che provengono dal Fondo europeo di sviluppo regionale e dal Fondo sociale europeo +, più il cofinanziamento nazionale. Spacchettate in una cinquantina di programmi gestiti da regioni e ministeri, devono essere impegnate entro il 2027 e spese entro il 2029, ma a questi ritmi di spesa non basterebbero un paio di decenni.
Se proprio si vuole cercare un segnale di vita, si può guardare all’aumento degli impegni di spesa, passati in quattro mesi da 4,2 a 6,8 miliardi, ma siamo ancora a meno del 10% delle somme disponibili. Del tutto giustificato, dunque, il pressante richiamo della Commissione europea nelle raccomandazioni all’Italia approvate il 19 giugno, ad «accelerare l’attuazione dei programmi della politica di coesione», un obiettivo considerato «cruciale, insieme al rafforzamento della capacità amministrativa a livello nazionale ma soprattutto negli enti locali». La Commissione ha chiesto all’Italia di approfittare della revisione di medio termine per rivedere i programmi entro marzo prossimo, tenendo conto delle «sfide» individuate nelle raccomandazioni Ue, in particolare «le disparità che persistono» tra Centro-Nord e Mezzogiorno. «Oltre al rafforzamento della capacità amministrativa – scrive la Commissione – è molto importante la rapida attuazione degli investimenti in ricerca, innovazione e competitività, in particolare nelle regioni meno sviluppate, insieme ai piani di sviluppo infrastrutturali e alle strategie regionali di specializzazione intelligente». L’Italia «dovrebbe continuare a migliorare la qualità dei servizi pubblici essenziali nelle regioni del Sud, in particolare i servizi idrici e di trattamento dei rifiuti». Tra gli altri suggerimenti della Commissione, nel lungo paragrafo dedicato alla coesione, anche la formazione e la riqualificazione dei lavoratori, la riduzione dei giovani che non lavorano e non studiano (NEET) e il supporto alle donne in cerca di occupazione.
La spesa dei fondi europei rispecchia le difficoltà generali del sistema-paese nel realizzare gli investimenti pubblici. I piani di rafforzamento amministrativo chiesti da Bruxelles all’Italia risalgono a più di dieci anni fa, nel tentativo di migliorare le capacità delle pubbliche amministrazioni. Il contenzioso elevato, accompagnato dai tempi lunghi della giustizia civile, non ha aiutato: troppo spesso all’aggiudicazione di un bando, l’impresa arrivata seconda fa ricorso. A queste cause “storiche” e al ritardo iniziale appesantito dal Covid, se ne sono aggiunte di nuove. Il PNRR ha prodotto un forte effetto spiazzamento: risorse ingenti (per due terzi a debito) che finanziano più o meno le stesse cose dei fondi strutturali, ma con un meccanismo di erogazione più semplice e veloce, basato sugli obiettivi raggiunti e non sulla rendicontazione dettagliata delle spese. I fondi del PNRR, inoltre, devono essere spesi entro il 2026 mentre per gli altri ci sono due o tre anni in più. Da qui l’attenzione politica e mediatica altissima sul PNRR e il dimenticatoio per tutto il resto, compreso il Piano complementare (si veda articolo a fianco).
Ma sono anche altre le ragioni dello stallo. Volendo mettere ordine alle politiche di investimento pubbliche, il ministro per gli Affari europei, il Sud, le Politiche di Coesione e il PNRR, Raffaele Fitto, è intervenuto in modo profondo sulla governance, in una logica di complementarietà ma anche di accentramento. A febbraio 2023, con il decreto di modifica del PNRR, ha delineato una riforma della coesione stabilendo la chiusura dell’Agenzia per la coesione, poi avvenuta a dicembre. Risorse e competenze sono state trasferite al Dipartimento della presidenza del Consiglio per la coesione (Dpcoe) articolato in cinque uffici generali, di cui uno risulta ancora senza responsabile e un altro affidato solo da un paio di mesi. La riforma (ancora da convertire in legge) ha imposto alle regioni gli Accordi per la coesione (mancano ancora Campania, Puglia e Sardegna) per vincolarle ad una lista condivisa di progetti e sbloccare le risorse del Fondo sviluppo e coesione. Il primo è stato firmato a settembre 2023, solo a fine aprile il Cipess ha approvato i 17 già firmati ma manca ancora l’ok della Corte dei conti. Morale: le regioni non hanno ancora visto un euro, risorse in molti casi necessarie per il cofinanziamento dei fondi strutturali. Tra il ministro e i governatori non sono mancate le tensioni che nel caso della Campania sono arrivate al Consiglio di Stato. Il tempo stringe, ma per ora gli effetti positivi non si vedono.
Articolo integrale pubblicato su Il Sole 24 Ore del 2 luglio 2024 (In collaborazione con Mimesi s.r.l)

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento