Somministrazione di alimenti e bevande all’interno di bar, ristoranti, pizzerie e consumo sul posto in esercizi di vicinato come macellerie, pescherie, salumerie e attività di panificazione: la differenza sta nel fatto che solo ai primi è consentito il servizio assistito.
Ma sul reale significato di quest’ultimo, da tempo dottrina e giurisprudenza hanno indagato a fondo il campo, pervenendo alla unanime conclusione per cui il consumo sul posto non è un’autonoma categoria di esercizio commerciale di prodotti alimentari, bensì una modalità specifica fruizione di tali prodotti che si aggiunge alla vendita.
L’ultimo intervento in ordine di tempo della giurisprudenza è la sentenza n. 11786 del Tar Lazio secondo cui il consumo sul posto non può essere inteso solo nell’ assenza di camerieri ma- più in generale e secondo una nozione funzionale- in una serie di elementi da verificare caso per caso e che comprende la tipologia degli arredi, la carenza di mescita delle bevande, la prevalenza economica del prodotto venduto, l’offerta del prodotto da vendersi a peso e non a porzione, la configurazione come attività accessoria rispetto alla vendita (che deve rimanere prevalente) e come semplice facoltà della clientela.
Infatti, il servizio assistito costituisce elemento strutturale, tipico ed identitario esclusivamente dei pubblici esercizi di somministrazione e senza il quale questi ultimi non hanno ragione d’essere, mentre costituisce elemento soltanto accessorio ed eventuale per gli esercizi di vicinato, in cui deve restare prevalente l’attività di vendita, così come rilevabile dall’organizzazione degli spazi, dell’attività aziendale e degli altri elementi di contesto.
Nella fattispecie era accaduto che il Tar capitolino aveva annullato il verbale della Polizia Locale di Roma Capitale che aveva contestato ad un’attività di vendita di prodotti di gastronomia l’esercizio abusivo di somministrazione di alimenti e bevande in quanto ritenuta in assenza del prescritto titolo autorizzativo e dei requisiti ex L. 287/91, per la accerta presenza di tavoli, piani d’appoggio e sedute.
È utile ricordare che in base alla legge 248/2006, che ha segnato la svolta in materia, gli esercizi di vicinato possono, oltre che vendere, anche effettuare il consumo sul posto dei propri prodotti pur senza servizio assistito, di cui non costituisce sintomo la semplice messa disposizione di tavoli, sedie e arredi funzionali al solo consumo, che quindi non possono definirsi una componente organizzativa tipica ed esclusiva della somministrazione.
Questo perché la nozione di servizio assistito per la somministrazione di alimenti non implica solo la presenza fisica di camerieri che ricevano le ordinazioni o prestino comunque il servizio al tavolo degli avventori (infatti i self-service non hanno un servizio del genere ma sono comunque normativamente inquadrabili come pubblici esercizi di somministrazione di alimenti e bevande).
In altre parole, la vera differenza fra servizio assistito dei pubblici esercizi di cui alla L. 287/91 e quella di consumo sul posto va individuato nella predisposizione di risorse, non solo umane, ma anche materiali, che siano di servizio al cliente assistendolo per consumare confortevolmente sul posto (cioè non meramente in piedi) quanto acquistato in loco, incidendo sulle caratteristiche commerciali effettive dell’intero esercizio che viene visto dalla potenziale clientela non più come un luogo di mero approvvigionamento ma anche come un possibile e ordinario luogo di ristoro.
Si legge nella sentenza che “in una realtà di abitudini al consumo in continuo divenire, la nozione di “servizio assistito” per la somministrazione di alimenti non può, ragionevolmente, essere circoscritta alla presenza, nell’esercizio, del c.d. servizio da sala, vale a dire alla presenza fisica di camerieri che ricevano le ordinazioni o prestino comunque il servizio al tavolo degli avventori (basti pensare, ad esempio, ai self-service, che non hanno un servizio del genere ma sono sicuramente ristoranti)…………. il discrimine effettivo tra l’attività di ristorazione e quella di consumo sul posto va più correttamente individuato nella predisposizione di risorse, non solo umane, ma anche semplicemente materiali, che siano di servizio al cliente assistendolo per consumare confortevolmente sul posto (cioè: non meramente in piedi) quanto acquistato in loco, così in pratica incidendo sulle caratteristiche commerciali effettive dell’intero esercizio, che viene visto dalla potenziale clientela non più come un luogo di mero approvvigionamento, ma anche come un possibile e ordinario luogo di ristoro, e venendo a rilevare sul piano urbanistico della regolamentazione generale del commercio dell’area e sul discrimine reale tra attività liberalizzate e attività non liberalizzate (in questi termini, Consiglio di Stato n. 8923/2019).
Ciò premesso, il Collegio, ancora una volta, ritiene di confermare quest’ultimo orientamento e di condividere pertanto, innanzitutto, il criterio interpretativo “funzionale” fatto proprio dall’Amministrazione nella fattispecie, in quanto unico in grado di tutelare efficacemente proprio quegli interessi sottesi alla libertà di iniziativa economica privata e alla correttezza del gioco concorrenziale che la ricorrente assume invece lesi dal provvedimento oggetto di gravame”.
Il ragionamento porta con sé inevitabilmente conseguenze anche sul terreno dell’occupazione di spazi e suolo pubblici mediante dehors, gazebo chioschi, che non è più appannaggio dei soli pubblici esercizi ex L. 287/91 ma, previo doveroso adeguamento del relativo regolamento comunale, anche di esercizi di vicinato del settore alimentare e delle imprese di panificazione, come da tempo affermato dall’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato e dall’allora Ministero per lo Sviluppo Economico.
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