Sessanta giorni per decidere, dodici mesi per ripensarci: il tempo e il potere nei commi 3 e 4 dell’art. 19, legge 241/90

Approfondimento di Domenico Trombino

Domenico Trombino 3 Novembre 2025
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Nel diritto amministrativo c’è, fra il tanto altro, un curioso talento per la nostalgia: ogni volta che il legislatore sembra aver trovato la formula della certezza, ecco che un inciso, un rinvio o un “fermo restando” restituiscono al potere pubblico quel margine di ritorno che ne rivela l’irriducibile vitalità.
È accaduto anche con l’art. 19 della legge 241 del 1990: dopo aver proclamato la vittoria della libertà d’iniziativa, l’autonomia del cittadino-imprenditore e la fiducia nell’autocertificazione, il legislatore ha concesso all’amministrazione un piccolo, discreto promemoria di sé stessa: sessanta giorni – non uno di più – per vietare, conformare, sospendere; poi, teoricamente, il silenzio della legge e la quiete della certezza. Teoricamente, appunto. Perché, come in ogni buona trama giuridica, il colpo di scena arriva subito dopo. Nel quarto comma, che con un gesto elegante, ma non innocente, richiama l’art. 21-nonies e i suoi “termini ragionevoli”, si schiude la porta segreta dell’autotutela: un varco attraverso il quale il potere amministrativo, pur con la voce affievolita, torna a parlare. Così, ciò che nel terzo comma sembrava chiuso dal tempo – il potere inibitorio confinato nei sessanta giorni – si riapre in una nuova dimensione, quella dell’interesse pubblico sopravvenuto, della correzione doverosa, dell’annullamento “entro dodici mesi”. Il legislatore, in fondo, non si fida mai del tutto della propria fiducia.

Il risultato è un dialogo tra due concezioni del potere: da un lato, il tempo amministrativo come architettura della certezza, dall’altro il ritorno del potere come espressione di vigilanza e responsabilità.

Una dialettica che ricorda più un minuetto che una marcia: il privato avanza nel suo diritto di iniziare, l’amministrazione lo segue con passo misurato, poi si arresta, poi riprende – se necessario – a ritmo più lento ma sempre presente.
È la metafora perfetta della pubblica amministrazione italiana: un potere che non sa davvero sparire, ma solo ritirarsi in una forma più sobria, per poi riaffacciarsi con l’aria di chi “interviene solo per dovere”.

In questa ironia di fondo – quella di un sistema che promette semplificazione e poi si attrezza per poterla rivedere – si misura l’essenza stessa del diritto amministrativo contemporaneo: la tensione costante tra certezza e controllo.

Il comma 3 rappresenta la razionalità geometrica del procedimento: un potere scandito da termini precisi, un equilibrio tra libertà e responsabilità, un rito del tempo in cui ogni fase ha la propria misura; ma è un equilibrio fragile, continuamente messo alla prova dal richiamo del potere a “rientrare in scena”.

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